Parole e mani.
Qualche giorno fa sono stata al mercato, che dovevo comprare della lana per una nuova coperta. Avevo bisogno di colori luminosi, chiari, i più adatti per le persone a cui la regalerò. Sarà grande e piena di righe. Linee concentriche, cicliche e circolari, come la vita. Ma sarà un quadrato. Pioveva una leggera pioggia, una di quelle di settembre, e stavano smontando le bancarelle, si doveva tornare a casa. Io camminavo dentro il mio ombrello a pois e avevo la sportina di rete piena di gomitoli. “Che bella quella borsa, brava che non usi le buste di plastica!“, così mi dicono quando la vedono. A qualcuno, invece, quella lì non era mai piaciuta: troppo femmina, troppo gaia, troppo fucsia, troppo tutto.
Davanti a me camminavano un padre, piuttosto in carne, scuro in viso e nell’animo, e una figlia che avrà avuto cinque o sei anni, piccola, magrolina, biondolina. Due opposti. Lei indossava un giubbino. Ai primi freschi si sa che la mamma ti fa mettere sempre un giubbino di jeans, quando esci. Il padre parlava al telefono, animatamente, perché era successo che non erano riusciti a incontrarsi con il resto del gruppo. Incolpava la moglie che gli aveva dato dei riferimenti sbagliati.
“No, guarda, quella mong…..e, no, per favore, non mi fare bestemmiare! Se me la ritrovo davanti, ora, la prendo a testate!”
Io ero sempre dietro di loro, con un ombrello a pois, una sportina fucsia piena di lana colorata e una gonna di tulle svolazzante. Ero, insomma, nella modalità di approccio alla vita che mi è più cara: la meravigliata della grotta, che ogni cosa minuscola della vita diventa un fatto lirico. E’ stato a quel punto che mi sono chiesta “Perché?“.
Sì, certo, magari non diceva sul serio, stava solo colorando le sue esternazioni, magari era nervoso perché al lavoro ci sono problemi, forse ha scommesso sulla squadra di calcio sbagliata, forse ha troppo colesterolo che ogni tanto si raggruma e fa arrivare poco sangue al cervello. E’ poco ossigenato, ecco, mi dicevo. Magari la testata non gliel’avrebbe data davvero. Certo che stava esagerando, recitava la sua parte di marito che sa tutto e di uomo vigoroso, al teatro dell’assurdo. Poi, invece, nella realtà dei loro giorni, si amano con tenerezza. Oppure è tutta un’altra storia.
Mi sono chiesta se fossero davvero necessarie quelle parole. Mi sono chiesta che cosa stesse passando a sua figlia attraverso quella mano che la teneva stretta e al riparo dal mondo complicato e pericoloso. Che cosa ha imparato la bambina dalle parole di suo padre, a cui si tiene stretta, per paura di perdersi?
Che parole di violenza insidiosa si porterà dietro, nella sua vita di donna adulta? Quale paura per un maschile nervoso e violento avrà impressa nella mente, che sarà sempre cauta, che cercherà di non sbagliare mai, che magari penserà che sarà sempre colpa sua e che sarà meglio non ridestarle mai quelle reazioni, che parlano di altre paure inconsapevoli?
A questo pensavo, mentre tornavo a casa, con tutte queste domande appresso. E no, non stavo esagerando, io.
Sono passati giorni e ancora ripenso a quella testolina bionda, che non ho visto in viso. E penso alla violenza che ci circonda, a quella che qualcuno subisce e a quella che ci viene raccontata, quella che vediamo da video virali inoltrati più volte, quella che ascoltiamo alla radio, la mattina, con il caffè. Ascoltiamo storie di bambine di 10 e 12 anni abusate da ragazzi poco più grandi di loro, in luoghi abbandonati dalla vita. Che mondo abbiamo disegnato?
Siamo stati bravi a sistemare nelle categorie della malattia, della depravazione, del contro natura, gli adulti che abusano dei bambini, anche nei contesti familiari. Lo abbiamo fatto per poter sopravvivere, per poter convivere con tutto questo, che tanto a noi non capiterà mai, per tenere tutto lontano dalla nostra vita, per dare un senso al dolore infinito? E se invece sono dei ragazzini che abusano delle bambine e lo fanno in gruppo e poi riprendono tutto? In che spazio esistenziale lo dobbiamo posizionare tutto questo, per sentirci assolti, come se il fatto non sussiste perché noi non lo faremmo mai? In che categoria deve posizionarlo la nostra mente, il nostro bel pensiero, per digerirlo ed allontanarlo da noi, come se non facesse parte della nostra vita, della nostra storia?
Ci sono troppe domande in queste mie parole, lo so. Domande a cui non so rispondere. Posso solo provare brividi e sentire la nausea che invade il mio cuore. Posso solo commuovere l’anima e desiderare che tutto ciò, in qualche modo, abbia un senso, anche se io non sono in grado di trovarlo. Ma non possiamo far finta che tutto ciò non esista.
Le storie che io e Banchetto ascoltiamo e conserviamo non sono sempre belle. Un giorno si è seduta una donna, minuta e fragile, sembrava la bambina del mercato. La sua carne era fatta di nervi tesi, pronti a saltare. La sua pelle prudeva, le sue mani non avevano più la forza di prendere. Mi guardava e aspettava la sua lettura. L’Universo aveva scelto per lei un messaggio che racconta delle esperienze che ci accadono in questa vita, che non sono mai totalmente negative o positive e che sarebbe meglio, anzi, non definirle subito come gioie o dolori, croci o benedizioni. Le dicevo di aspettare, che “un rovescio di fortuna può rivelarsi un dono grande, con il tempo“. Lei ascoltava in silenzio. E poi ha iniziato a raccontare e sono stata io a dover ascoltare.
Quando era una ragazzina, un gruppo di amici, coetanei, l’aveva invitata ad andare con loro in un luogo fuori città, fuori mano. Si è fidata. E poi, perché non avrebbe dovuto farlo? C’era anche il suo ragazzo. Ma non è andata bene. Hanno toccato il suo corpo, mi ha detto, e mimava i gesti con le mani, hanno frugato dappertutto, contro la sua volontà. E’ successo due volte. “Non avevo una minigonna. Non ero vestita in modo che potessero pensare che ero disponibile. Non volevo sedurre nessuno. Io non volevo“. Questo mi ha detto.
Ho sempre un dolore fitto quando ricordo quel momento, perché lei mi guardava negli occhi mentre raccontava e non piangeva. Non ci sono lacrime che possono lavare lo sporco che ti senti dentro, mi diceva. E neppure le docce continue che ha iniziato a farsi quotidianamente, da quel giorno. Si è consumata la pelle, a furia di lavarsi, e le sue mani si sono arrugginite. Ha raccontato questa storia solo tre volte nella sua vita e una è stata quel giorno in cui l’ho incontrata. Non l’ha raccontata agli uomini che ha amato, per vergogna, per paura di essere giudicata, di essere riconosciuta colpevole, per paura di sentirsi dire che se l’era cercata. E non sto esagerando nemmeno questa volta, io.
Eppure tutta la sua vita, i suoi dolori, il suo stare al mondo, sono stati condizionati da chi quel giorno si è divertito, pensando che fosse una cazzata come tante, quelle che si fanno da ragazzini. Come impennare con il motorino, giocarsi la scuola, lanciare gavettoni al compagno timido. Ragazzate.
Non ho mai comprato armi giocattolo ai miei figli e non ho mai voluto che gliele regalassero. Si impara da piccoli a diventare grandi e a scegliere da che parte stare. Non ho mai insegnato la violenza ai miei figli, anche se volevo che la imparassero, certo, ma da altro, per conoscerla e scegliere di non praticarla mai.
Che cosa avrà insegnato quel padre a sua figlia, in quei pochi minuti in cui io ho condiviso il loro passo e la loro vita? E cosa insegnerà che io non vedrò e ascolterò?
Hanno gridato con me. Poche volte da bambina, che io facevo la brava. Poi, da grande, quando ho smesso di farlo, di dire sempre si, di passare inosservata, quando non sono stata più cauta e zitta, per non far tornare le paure, mi sono state gridate parole violente, urlate con rabbia, con dolore, con disperazione. Perché io risvegliavo e alimentavo le paure. Io risvegliavo. Mi sono state gridate parole violente e non tutte le meritavo.
La maggior parte le ho dimenticate. Le ho capite. Le ho inghiottite e digerite. Le ho perdonate.
Di altre ho preso nota su una piccola agenda, che non guardo mai, nascosta in libreria. Lascio che sia il caso a decidere quando avrò bisogno di rileggerle per ricordarmi che le paure vanno guardate dritte negli occhi per poter reagire, per ricordare la mia forza.
Ed è solo allora che si è pronte ad amarle e a ringraziarle.
Nei miei viaggi con Banchetto e nei miei incontri con donne ascolto troppo spesso storie come queste che vi ho raccontato, compresa la mia. E la mia risposta è sempre la stessa “è quando troverai te stessa, è quando la tua forza interiore sarà splendente, è quando non sarai più pronta a subire, è quando i tuoi SI e i tuoi NO saranno scolpiti dentro la tua anima che niente e nessuno sarà in grado di usarti violenza. E non è così difficile da fare, bisogna solo guardarsi allo specchio, con amore e ferocia“.